Ripartire da Dio
Cari fratelli presbiteri, membri della vita consacrata e voi tutti che fate parte del popolo di Dio,
sia pure in forma ridotta e solo con alcuni rappresentanti il presbiterio diocesano, i membri della vita consacrata e le associazioni laicali, abbiamo ritenuto opportuno ritrovarci qui, nella nostra cattedrale, per vivere questa santa liturgia del CRISMA, mentre a tutti è data la possibilità di seguirla mediante il collegamento televisivo e via streaming.
Il corona virus ci ha mortificato a tal punto da creare un clima di paura e di insicurezza, di solitudine e di provvisorietà. Per il bene di tutti, al fine di tutelarne la salute, abbiamo sospeso con rammarico ogni tipo di celebrazione pubblica e i vari momenti comunitari. Ora ci è data ora la possibilità di ripartire con la S. Messa, certo con tante precauzioni, e sappiamo che non ovunque si sono potute riprendere le diverse celebrazioni feriali e festive, là dove soprattutto è più pericoloso che altrove organizzare momenti comunitari.
Abbiamo avvertito forte la mancanza delle nostre assemblee liturgiche, soprattutto domenicali. Sentiamo vivo, perciò, il desiderio di ritrovarci insieme come fratelli e affermare che la nostra unità, fondata sulla comune vocazione ricevuta, è più solida dei pericoli che ancora ci minacciano.
Il bisogno di sperimentare la gioia e la freschezza della comunione fraterna e di godere della consolazione di Dio, frutto di questa celebrazione, deve aiutarci a superare ogni esitazione. Anche le altre Diocesi della Lombardia stanno vivendo, come noi, questo momento di viva fraternità nel Signore, mediante questa celebrazione crismale, luogo in cui viene distribuito nuovamente e con larghezza lo Spirito Santo, su di noi e sulle nostre Comunità, attraverso l’Olio Santo, occasione quindi di una nuova effusione che viene dall’alto e che rigenera noi stessi e le nostre Comunità.
Il pericolo del contagio è sempre una eventualità a cui siamo tutti personalmente esposti, ma a noi consacrati è chiesto una scelta coraggiosa supplementare: quello di mantenerci sempre a disposizione del nostro popolo di Dio.
Mi vengono in mente le parole forti del priore dei monaci cistercensi di Tibherine, in terra d’Algeria, Christian de Chergé, quando la comunità, minacciata dagli estremisti nella guerra civile, deve decidere se restare in Algeria, in una situazione di grande conflittualità e pericolo, o abbandonare il monastero per fare rientro in Europa.
L’argomento che il priore adduce è espressione di una scelta precisa e resa definitiva dalla comune vocazione stessa. Egli sottolinea: “la nostra vita è già stata donata una volta per sempre. Perciò decidiamo di restare, ben consapevoli del rischio che affrontiamo, ma in piena fiducia nel Signore“.
Quante persone in questi mesi di pandemia hanno saputo rimanere al loro posto per servire i fratelli ammalati. Penso con ammirazione ai numerosi medici e infermieri, ma anche ai tanti generosi sacerdoti che hanno condiviso la storia dei loro parrocchiani, esponendosi anch’essi al rischio del contagio e accettando consapevolmente di dare la vita, quale libera offerta sacrificale. Un esempio splendido anche per noi, a volte timorosi e titubanti sulle scelte da compiere.
Il corona virus ha stroncato tutti i nostri appuntamenti ben congegnati, ha sospeso le attività, entrate nella nostra tradizione e ritenute da noi ben consolidate. La storia di questi mesi ci ha insegnato che non tutto era così indispensabile e urgente come credevamo che fosse, che tante scelte di settore, che ritenevamo essenziali, forse non lo erano proprio. Il Signore ci ha costretto ad una passività totale per concentrarci sulle poche cose che contano, sorvolando, invece, tante altre apparentemente fruttuose, ma solo da una prospettiva umana.
Dobbiamo ammettere che certe nostre scelte passate, fatte in buona fede certamente, erano solo dei semplici mezzi per far incontrare il Signore e per costruire la comunione nel popolo di Dio attraverso di esse. Tuttavia noi spesso, ciò erano solo dei mezzi, li abbiamo scambiati per fini. E a volte i risultati sono stati deludenti!
La situazione attuale, ancora molto incerta, ci ha ridotti all’essenziale, ci costringe a “navigare a vista”. Una consapevolezza ci deve accompagnare, ossia che il Signore ci sta preparando una nuova stagione di Chiesa, con scelte propositive radicalmente nuove, che ancora non riusciamo nemmeno ad immaginare e che rivoluzioneranno il nostro agire pastorale.
Ce lo conferma la storia della Chiesa. Ogni epoca ha espresso qualcosa di radicalmente nuovo e la creatività del popolo di Dio ha espresso forme inusitate a partire proprio dalle contingenze storiche.
Siamo sicuri che uscirà una nuova immagine di Chiesa: più povera, più umile, meno dotata di strutture, ma forse più accogliente, non giudicante, amica degli uomini e in cammino con loro a immagine di Gesù.
Ora la nostra domanda è comune: da dove ripartiamo e con quale spirito? Univoca deve essere la nostra risposta:
Noi ripartiamo da Dio e dal suo disegno di salvezza per tutta l’umanità.
Molti sacerdoti, in questo tempo di pandemia, mi hanno confidato di aver ripreso la preghiera in modo sistematico. Non una preghiera frettolosa, magari al termine di una giornata fondata spesso sulla vorticosa e logorante attività del ministero, con tanti compiti di supplenza.
È certo che la nostra vocazione pone la preghiera al primo posto, essendo noi i primi intercessori a favore dell’umanità.
Ripartire da Dio significa mettere Dio al centro, dargli il primato, così che i nostri fedeli possano anch’essi riconoscerlo come il Signore della loro vita. Dio che non è al di fuori della nostra storia e del nostro ambiente, che cammina con il suo popolo, che mantiene sempre le sue promesse.
Chi prega si ritrova trasfigurato ad opera dello Spirito santo che modella il cuore a immagine di Gesù, il pastore supremo e non configura gli altri a se stesso o alle proprie parziali vedute. Chi prega viene trasformato dallo Spirito Santo in una persona positiva; le sue parole non esternano rabbia o una mentalità di chi ha perso entusiasmo e vigore, ma “manifestano un clima di vita pacifica, gioiosa, calma, conviviale e fraterna”. Chi prega avverte di respirare nella Chiesa e di sentirsi espressione di Chiesa e non di sentirsi la “prima donna” che vuole distinguersi con le sue personali intuizioni. Chi prega diventa umile, compassionevole e ricco di misericordia. Chi prega diventa un uomo di comunione, capace di soffrire con chi soffre e di gioire con chi gioisce.
La gente deve cercarci non per tanti altri interessi, che non sono di nostra competenza, ma per la nostra capacità di “dire Dio”, di mostrarlo all’opera nella vita del suo popolo, di generare gesti di misericordia, a immagine di lui.
Già oggi la gente è attratta in quei luoghi, in quelle comunità dove l’annuncio del Dio trinitario è marcatamente visibile. A queste comunità già i giovani accorrono.
A cominciare dalla cura della liturgia, adatta all’oggi, ricca, certo, della tradizione ecclesiale, ma che non ci riporta indietro a un passato che non tornerà più.
A partire dall’ascolto serio della Parola di Dio, dalla testimonianza umile di una comunità veramente fraterna, che non significa perfetta, a una accoglienza aperta a tutti, senza giudicare nessuno.
Concludo con una citazione della Evangelii Gaudium (279) di Papa Francesco che ben sintetizza quanto ho cercato di esprimervi. “A volte ci sembra di non aver ottenuto con i nostri sforzi umani alcun risultato, ma la missione non è un affare o un progetto aziendale, non è neppure una organizzazione umanitaria, non è uno spettacolo per contare quanta gente vi ha partecipato grazie alla nostra propaganda. E’ qualcosa di molto più profondo, che sfugge ad ogni misura. Forse il Signore si avvale del nostro impegno per riversare benedizioni in un altro luogo del mondo dove non andremo mai… Impariamo a riposare nella tenerezza delle braccia del Padre in mezzo alla nostra dedizione creativa e generosa. Andiamo avanti, mettendocela tutta, ma lasciamo che sia Lui a rendere fecondi i nostri sforzi come pare a Lui”.
+ Oscar Cantoni, Vescovo di Como