L’ospedale è una cittadella che ci accomuna, una grande cattedra in cui emerge una lezione che nessun altro luogo può impartire, cioè la nostra vera, autentica umanità, al di là delle tante maschere con cui normalmente ci sforziamo di apparire nei diversi ambienti di vita.
Qui lasciamo emergere invece quello che siamo veramente, uomini e donne provati dalla condizione fragile della malattia, ma nello stesso tempo qui si manifesta la larghezza di cuore di quanti ogni giorno si prodigano, con le proprie competenze professionali, a sostegno della salute degli altri, quindi a difesa dell’altrui debolezza.
E’ bello che mentre oggi celebriamo la giornata del malato, onoriamo anche in modo particolare gli infermieri e gli ostetrici, essendo quest’anno dedicato a queste due categorie professionali, come non manchiamo di ricordare tutti gli operatori sanitari, al servizio della vita umana segnata dalla malattia.
Gli uni con gli altri, gli uni per gli altri, perché tutto ciò che l’uomo acquisisce con la sua particolare specializzazione può diventare una occasione di dono, di scambio, di reciproco aiuto. Il prendersi cura, vivendo relazioni di prossimità, è la chiave per vivere in pienezza la propria umanità.
Quanti si riconoscono nella fede cristiana, svolgono il loro servizio nello spirito delle parole di Gesù, che si identifica nei malati e nei sofferenti, come la sua carne viva: “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me“(mt 25,40).
Il Figlio di Dio non è venuto a spiegarci dottrinalmente il mistero della sofferenza, ma l’ha assunta su di sè, come è testimoniato nella prima lettura di Isaia, in uno dei brani in cui viene presentato il servo di Ihawè, figura quanto mai singolare, rimasta oscura e incompresa nel popolo di Dio del primo testamento.
Venendo in mezzo a noi, con la sua incarnazione, il Figlio di Dio ha condiviso dal di dentro la nostra condizione umana, si è fatto prossimo, uno di noi. La prossimità è il metodo che Dio ha usato per salvarci.
Egli non è scappato dalle prove della vita; ha subìto il rifiuto della gente che poco prima lo aveva osannato; ha affrontato lo scandalo della croce, non senza timore e sconforto, testimoniato nella sua lotta al Getzemani.
Ha provato il dolore fisico fino alla estrema umiliazione della croce; ha accettato la prova della solitudine, essendo stato lasciato solo, anche dai suoi discepoli più cari; ha voluto toccare con mano perfino la lontananza da Dio suo padre, come quanti di noi, proprio nell’ora della sofferenza e del buio, si sentono soli e abbandonati anche da Dio.
Il Figlio di Dio, però, non è mai venuto meno nella fiducia, nella più totale e profonda confidenza nel Padre e a Lui si è totalmente abbandonato: “nelle tue mani, Padre, affido il mio spirito“.
Uomo dei dolori ha condiviso il nostro patire perché l’uomo che soffre potesse comprendere di più il valore divino della redenzione e della fede e a confidare sempre nella bontà paterna e provvidente di Dio.
Noi oggi godiamo della prossimità di Dio attraverso la cura materna di Maria, così sollecita con quanti ricorrono a Lei con fiducia. Come Ella si è preoccupata di recarsi in fretta dalla cugina Elisabetta, bisognosa di cure e di aiuto, così ella è sollecita con quanti la invocano e ci è vicina per sostenerci nell’ora del dolore.
La prossimità di Dio ci viene donata anche da tutto il personale sanitario, che viene incontro alle esigenze dei malati con spirto di servizio e atteggiamento di generosità e sensibilità.
Il malato non è un numero, ma una persona bisognosa di umanità, di amicizia e di comprensione, anche se in certi momenti critici della malattia si scoraggia o perde la pazienza. So che non è facile lasciarsi assorbire dai sistemi che mirano solo alla componente economico-finanziaria, come alcuni medici amici mi confidano. Umanizzare la medicina e la realtà ospedaliera e sanitaria è la sfida che quotidianamente affrontano molti medici qui presenti. Affido il loro impegno alla materna intercessione della Vergine Maria Regina infirmorum