Il 24 agosto si è ricordata la giornata che l’Onu dedica alla Commemorazione delle vittime di atti di violenza basati sul credo religioso. Un evento che si tiene per il secondo anno e che si colloca in una realtà, resa ancora più difficile dalle problematiche connesse alla pandemia di Covid-19.
L’emergenza, da un lato, accentua le discriminazioni e rende ancora più indifese le vittime. Dall’altro, impedisce una reazione efficace a livello istituzionale, di società civile o internazionale, insomma da parte degli attori che lo scorso anno la 75ma Assemblea generale delle Nazioni Unite ha chiamato «a creare una piattaforma inclusiva per gli Stati membri, le organizzazioni internazionali e la società civile per partecipare alle attività destinate a commemorare le vittime e a sostenere i sopravvissuti».
Le discriminazioni nella distribuzione degli aiuti a cristiani, indù e Ahmadi nel musulmano Pakistan e verso i cristiani e musulmani nell’India guidata dai nazionalisti indù, sono state più volte denunciate. Troppo spesso, però, simili situazioni sono state silenziate dalle priorità legate alla pandemia.
Come in Myanmar, dove negli ultimi mesi è proseguita con poche soste e ancor meno testimoni l’offensiva verso i musulmani Rohingya e altre etnie cristiane. Altrove in Asia, le misure di contenimento e la censura che accompagnano la lotta al coronavirus consentono alla repressione dei fenomeni religiosi (come per i musulmani Uighuri nello Xinjiang cinese) di essere pressoché ignorata all’esterno.
In tante aree dell’Africa e in Medio Oriente, tribalismo e discriminazione religiosa stringono d’assedio le minoranze, sovente utilizzando situazioni di conflitto.