Da “Il Settimanale” #01 – del 16 gennaio 2020
Prima di una serie di serate promosse dalla parrocchia di San Fedele, a Como, aventi come filo conduttore il tema: “Giovani e adulti, incontriamoci”
Può capitare che una sera si esca di casa per ascoltare una conferenza non capendo bene di cosa precisamente si parlerà! È capitato venerdì 10 presso la chiesa di San Fedele, dove erano presenti oltre un centinaio di persone per ascoltare il primo testimone di una mini serie dal titolo “Giovani e adulti, incontriamoci”, testimonianze che vogliono dare il “La” all’inizio dei lavori di sistemazione dell’oratorio di Sant’Eusebio, che proprio in questi giorni stanno partendo. Vogliono dare il La, perché – come ha detto, il parroco, don Pietro Mitta nella sua introduzione – non
si vuole realizzare solo una casa di mattoni, ma riempirla di persone che sappiano incontrarsi e costruire una relazione tra loro. Il primo testimone è stato don Marco Pozza; effervescente, istrionico, grande affabulatore, un tipo “originale”, come è stato definito dal suo Vescovo, parlando con una signora. È cappellano del carcere di massima sicurezza “Due Palazzi” di Padova, che ospita circa 600 detenuti, con pene passate in giudicato, tra cui anche ergastoli ostativi ovvero sia, con fine pena mai! Il suo intervento, pur muovendo dalla sua esperienza di cappellano non ha riguardato la vita carceraria, ma l’approccio educativo verso i giovani. Due soli incisi sul carcere: esistono reati, anche gravi come gli omicidi e le rapine, che sono sempre da condannare e mai giustificare, ma chi li commette è una persona, con la sua dignità, la sua storia e i suoi limiti; ci sono persone, detenute e non detenute che sono reclusi per scontare sì una pena, ma anche per tentare un cammino di recupero umano e morale.
Bella l’immagine proposta di piante che sono cadute, spinte dal vento, ma che hanno conservato le radici così da poter rivivere. E di radici forti per stare bene, parole rubate a papa Francesco, ha poi spiegato don Marco per delineare un possibile cammino verso il futuro. Le piante cadute, il rapporto con i nonni e con i carcerati, la storia di Telemaco, figlio di Ulisse e alcune pagine del Vangelo di Giovanni hanno accompagnato il suo raccontare, perché tale è stato il dire di don Pozza, e non una dotta relazione, una delle tante che si sentono sul rapporto giovani
e adulti. Don Marco nel suo racconto ha voluto consegnare a chi ha ascoltato, e non solo sentito, la sua speranza, un consiglio e tre dimensioni da sviluppare per il cammino dell’oratorio. Il consiglio: essere attenti a non fare come tanti esperti e preti che danno delle risposte sulla vita e sul senso delle cose a domande che in realtà nessuno ha chiesto e che, quindi cadono nel vuoto. Le tre dimensioni da coltivare: aiutare a dare un senso, uno scopo alla fatica di vivere, alle sofferenze, ai fallimenti dei giovani che si incontrano, stando loro accanto. Far sentire loro il perché della loro vita, con la riscoperta delle figure del padre e della madre; ciascuno è frutto di uno sguardo profondo tra due persone, ha sottolineato don Marco, e lì sono le radici di ciascuno, che si dovrebbero sempre portare con sé. Infine l’ultima dimensione: se è vero che siamo nelle mani di Dio è altrettanto vero che Dio è nelle nostre mani: la Parola si è fatta carne ed è presente nell’Eucarestia per sostenerci nel cammino. Dio è stato presente nella storia umana attraverso uomini e donne con i loro limiti e le loro debolezze, Dio si è servito del letame per far crescere il suo Regno, un’immagine forte di don Marco. Da qui l’invito alla pazienza nell’accompagnare, nel coltivare la crescita delle persone. La brillante conversazione di don Pozza si è chiusa
con la recita di una Ave Maria per la sua attività e per i suoi “parrocchiani” del “Due Palazzi”, recitata non in forma mnemonica, ma meditata con calma, dentro nel cuore!
ROBERTO RIGHI