Una Chiesa missionaria nella sua identità, come ci ricorda papa Francesco nell’Evangelii gaudium: che quindi “è” missione, prima di “fare” azione missionaria. Chiamata inoltre a una “conversione missionaria” radicale, che ne coinvolge gli stili, le modalità operative, gli assetti interni e istituzionali. E’ stato questo il filo conduttore delle riflessioni che il Consiglio Presbiterale, riunitosi in Seminario martedì 23 ottobre, ha offerto al vescovo Oscar. In primo piano, ovviamente, la questione della missione “fidei donum” che la nostra Diocesi si appresta ad avviare in Mozambico, dopo l’interruzione della presenza (ma non delle collaborazioni fraterne) dei nostri missionari in Camerun per i noti motivi di sicurezza legati alla situazione politico-religiosa. Il vescovo Oscar aveva già posto con veemenza la questione della missione in Mozambico durante l’assemblea del clero a inizio settembre. Si tratta ora di dar corpo a questo slancio spirituale, individuando l’equipe operativa (non solo sacerdoti, ma anche laici, famiglie e religiosi) disponibile a mettersi in cammino verso la terra africana.
La seduta del Consiglio Presbiterale si è svolta in due momenti. Dapprima la relazione, profonda e articolata, di padre Luigi Zucchinelli, in veste di membro del Consiglio episcoplae, ma soprattutto di missionario saveriano di lungo corso. Padre Luigi ha ripercorso i lineamenti essenziali di una “missionologia” che ha al suo centro la figura di Cristo inviato dal Padre per un’obbedienza salvifica nel mondo, ma che poi sfocia nell’indole essenzialmente missionaria della Chiesa. La Chiesa, seguendo il magistero di papa Francesco, è oggi chiamata a un profondo rinnovamento missionario, per “uscire” in cerca dell’uomo percosso e ferito lungo le strade del mondo. Padre Luigi ha, fa le altre cose, ripercorso l’evoluzione delle missioni “fidei donum”, a partire dalla loro istituzione da parte di Pio XII con l’omonima enciclica del 1957. Negli sviluppi successivi si è affinata la consapevolezza che la missione non è prerogativa solo degli istituti missionari, o di qualche singolo missionario magari appoggiato da una rete di “sostenitori” nella sua terra di partenza, ma dell’intera Chiesa locale. Al punto che, a partire dagli anni ’90, sempre più l’invio in missione ha coinvolto laici e famiglie, accanto a sacerdoti e religiosi; si è diffusa la consapevolezza che tutte le Chiese locali devono entrare nella logica di donare missionari fidei donum: non solo le Chiese ricche di mezzi e persone, ma anche le giovani Chiese più povere e sguarnite, dal momento che l’apertura missionaria appartiere all’essere stesso (e non solo all’operatitività) di qualsiasi Chiesa locale. Questa riflessione, peraltro, aveva già prodotto la convinzione di una relazione bi-univoca, e non solo mono-direzionale, del flusso dei fidei donum: sia nel senso di un reciproco arricchimento spirituale e pastorale (quindi anche le Chiese “di missione” hanno molto da insegnare e da donare alle Chiese “di partenza”), sia nel senso di uno scambio di missionari (per cui molti “fidei donum” provenienti dalla Chiese “di missione” si trovano di fatto ad operare nelle chiese di più antica tradizione). In questo senso il vescovo Oscar Carabayllo, in Perù (dove è attualmente attiva l’unica nostra missione diocesana), di un prete “fidei donum” peruviano da accogliere in diocesi, sia per un servizio pastorale, sia per un periodo di sua formazione. Quanto all’aspetto dello scambio di doni spirituali e pastorali con le Chiese “di missione”, è stato però fatto notare come questo sia avvenuto con parecchia difficoltà negli anni scorsi.
Il Consiglio è poi proseguito con dei lavori di gruppo, che hanno arricchito la riflessione sul tema. Sono stati messi a fuoco spunti interessanti, che spaziano dall’identità della Chiesa (in questa delicata fase di passaggio epocale da un modello “identitario” a un modello “relazionale), alla conversione missionaria di tutti i sacerdoti diocesani, spesso ostacolata dal peso delle molteplici incombenze di carattere burocratico-amministrativo e da una eccessiva mobilità che impedisce una realtà condivisione di vita con la gente. La consapevolezza delle nostre comunità cristiane di essere ormai sempre più un “piccolo gregge” nel mondo secolarizzato potrebbe anche diventare una risorsa per un rinnovato slancio missionario, a condizione però che le comunità siano realmente capaci di “attrattività”. L’essere attrattivi dipende però principalmente dall’abbattere uno stile ecclesiale che risulta ancora troppo divisivo, portato molto a distinguere, precisare e, a volte, separare (se non addirittura ad escludere).