30 agosto 2017

Discorso e preghiera in occasione della festività di S. Abbondio

La festività di sant’Abbondio,  patrono della Città di Como e della Diocesi, è una ricorrenza che riguarda non solo la Comunità cristiana, ma che accomuna tutti gli abitanti di questa nostra amata terra, qualunque sia il loro credo. E’ un punto di riferimento per coloro che a Como abitano da sempre o che lì sono ospitati e accolti. E’ un momento di riflessione anche per coloro che, per la fiducia dei cittadini, sono stati chiamati a governarla.

A tutti, a partire dalle famiglie, vorrei rivolgere il mio saluto augurale, raggiungere quanti sono in particolari situazioni di disagio e di sofferenza; vorrei offrire segni di fiducia e di speranza ai cittadini che in questa Città vivono, lavorano, qui condividono difficoltà, affrontano le diverse urgenze. Vorrei inoltre farmi vicino a quanti, in modo speciale, si impegnano ogni giorno per il bene comune e si prodigano appassionatamente nelle diverse realtà civili e nel volontariato, per rendere la nostra Città più bella, più abitabile, più accogliente, e la riconoscono, come è ogni Città nel mondo, luogo plurale  di relazioni,  di intrecci di persone, di culture, di religioni e di civiltà. Tra le caratteristiche storiche della Città di Como spiccano le sue mura, di edificazione romana, che un tempo la circoscrivevano. Oggi,  cadute tutte le barriere difensive,  anche la nostra Città è chiamata a sperimentare la “convivialità delle differenze”, vero segno dei tempi, ossia l’ apertura  a uno stile nuovo di umanità, ormai incontrovertibile.

Ho scelto di rivolgere il mio primo discorso alla Città attingendo alcuni spunti dall’insegnamento di Papa Francesco.  Certo, Egli si rivolge al mondo intero, ma ai singoli vescovi è dato il compito di contestualizzare ciò che Egli richiama e applicarlo alle singole situazioni locali. Mi ispiro, perciò, ad alcune espressioni contenute nella esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” (2013), che è un po’ la “magna carta” dell’attuale pontificato.

La prima di queste espressioni è: L’unità prevale sul conflitto (EG 226-230). Non è difficile cogliere le diverse tensioni che facilmente si respirano, non solo in Italia, in genere, ma spesso anche nella nostra Città, e non solo nei momenti elettorali. Il clima sociale è generalmente segnato, per molteplici motivi, da un alto tasso di conflittualità: tra i cittadini, nelle diverse realtà associative, nei partiti, nelle Istituzioni, e riflesso puntualmente attraverso gli strumenti mass mediali, i quali hanno un grande compito e un’alta responsabilità nell’interpretare le notizie e nel commentare gli avvenimenti. La polemica, intesa nel suo significato più nobile, secondo l’etimologia greca, è una lotta per far emergere le ragioni superiori della verità e del bene e non il tentativo di far prevalere ad ogni costo il proprio orientamento, fino a giungere ad annullare o denigrare il parere altrui.

Le ragioni del bene comune devono poter superare le legittime diversità ideologiche, strategiche e tattiche che animano il confronto, impegnandosi sostanzialmente a ridurre i livelli di conflittualità. Se non vogliamo rimanere intrappolati dal conflitto, proiettando sulle Istituzioni le nostre confusioni o insoddisfazioni, occorre allora, scrive Papa Francesco, “accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo” (EG 227). Se veramente cerchiamo il bene possibile della nostra Città e dei suoi abitanti, a partire dai più svantaggiati, materialmente e spiritualmente, occorre puntare decisamente a un patto di “amicizia sociale”, che preceda e vada oltre ogni differenza. In tal modo “i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto” (EG 228).

Aggiungo ora due altri criteri orientativi, che Papa Francesco sottolinea nella sua EG: “Il tutto è superiore alla parte” (EG 234-237) e “Il tempo è superiore allo spazio” (EG 222-225). Siamo tutti consapevoli che non esistono soluzioni immediate e del tutto soddisfacenti per la gravità e la complessità dei molteplici  problemi. Da una parte, i cittadini domandano sicurezza, dall’altra i numerosi immigrati  chiedono una protezione umanitaria, che non può essere ignorata. Il degrado urbano, episodi di micro criminalità, ecc., possono suscitare dinamiche di diffidenza e di competitività. C’è il pericolo di esasperare le reali situazioni oggettive, creando turbamento e inquietudine, col rischio di generare una “guerra tra poveri”. Occorre mettere in atto processi che siano capaci di offrire soluzioni progressive. Una efficace soluzione, distesa necessariamente nel tempo, sarà possibile solo se l’obiettivo finale del processo è chiaramente presente nella sua progettualità, se si avviano processi a lunga scadenza.

Gli italiani sono un popolo che  ha conosciuto a suo tempo il fenomeno migratorio (allora eravamo noi tra coloro che partivano!) e tutti conosciamo i disagi affrontati e le sofferenze subite dai nostri migranti. Oggi, invece, siamo noi ad accogliere altre persone, venute da molto lontano, migranti che transitano o che si insediano nei nostri territori, il cui dramma è inseparabile dalla povertà, dalla persecuzione religiosa ed esacerbato dalle guerre. “Il tutto è superiore alla parte”. Il tutto è più grande di noi, ed è fatto di povertà, di privazioni, di stenti, di calpestamento della dignità della persona umana. Non possiamo guardare solamente il nostro benessere e difendere la nostra elevata prosperità economica. Sarebbe difettosa la classe politica che ignorasse il clima di allarme che a volte serpeggia tra la nostra gente, ma nello stesso tempo sarebbe dannoso creare inutili allarmismi, dimenticando che anche gli immigrati possono essere una risorsa. Così scrive Papa Francesco: “Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. E’ necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia. (EG 235) E ancora: “Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le loro potenzialità… E’ la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti” (EG 236).

Non possiamo lavorare solo sulla emergenza, occupando spazi e presidiando l’immediato, ma molto di più impegnandoci per l’avvio di processi di pacificazione e di integrazione a lunga scadenza, che favoriscano un incremento di umanità. Occorre mantenere viva la tensione “tra la congiuntura del momento presente e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae” (EG 222). Al contrario, “dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli” (EG 223). Solo una politica dei ponti (e non quella dei muri!) prepara un futuro di pace e di autentico benessere sociale.

Concludo con un’ultima riflessione, fondata sull’espressione di Papa Francesco: “La realtà supera l’idea”. Occorre, da parte di chi riveste responsabilità civili imparare sempre più a sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda della gente e a non rincorrere le intuizioni delle élites, fondate su dimensioni intellettualistiche, che non interpretano il vero sentire del nostro popolo. Ricorda Papa Francesco: “L’idea, le elaborazioni concettuali, è in funzione del cogliere, comprendere e dirigere la realtà. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci. Vi sono politici, e anche dirigenti religiosi, che si domandano perché il popolo non li comprende e non li segue, se le loro proposte sono logiche e chiare. Probabilmente è perché si sono collocati nel regno delle pure idee e hanno ridotto la politica e la fede alla retorica. Altri hanno dimenticato la semplicità e hanno importato dall’esterno una razionalità estranea alla gente” (EG 232). Possiamo applicare questo principio alla dimensione culturale. Oggi assistiamo a dinamiche culturali che spesse volte dimenticano l’uomo, la persona, nella sua inscindibile unità di corpo e di spirito, e nella sua essenziale connotazione di genere (maschile e femminile).

La diffusione delle bioteconologie, per esempio nel campo della riproduzione umana, mette a repentaglio il modo umano di generare la vita e l’identità della famiglia biologica. A farne le spese sono soprattutto i figli, i bambini, che in nome di una ideologia della libertà individuale non ammette vincoli, vedono calpestato il loro diritto primigenio a una genitorialità certa, unitaria, non frammentata. La diffusione della ideologia del gender tende a cancellare l’originarietà della differenza fra maschile e femminile, profondamente inscritta nella struttura della realtà. E’ da essa che dipendono, in larga parte, il cammino della personalizzazione, l’ordine delle relazioni, l’umanità della trasmissione della vita.

Per fortuna l’identità della persona umana sembra dotata (noi la chiamiamo “legge naturale”) di una sorta di resilienza, tale per cui essa si ribella alle torsioni e distorsioni ideologiche a cui viene sottoposta. Non si tratta di questioni accademiche, astratte, ma terribilmente concrete, perché hanno a che fare con i nostri vissuti elementari e con le nostre relazioni basilari. A chi ha responsabilità educative, nel campo dell’istruzione e della promozione culturale, si richiede perciò una vigilanza, affinchè correnti culturali di discutibile impianto antropologico e di dubbia pertinenza scientifica non vengano ad alterare la grammatica elementare della persona umana, inscritta nella realtà.

Ho voluto offrire queste considerazioni come contributo alla riflessione di tutti, che non può mancare soprattutto per chi è investito della cura del bene comune, fiducioso nello spirito di solidarietà responsabile che anima tutti voi, qui presenti a questo momento celebrativo. Mi rivolgo ora alla protezione del nostro grande Patrono, il vescovo s. Abbondio. A Lui vorrei affidare soprattutto quanti sono investiti di responsabilità nei confronti del popolo che vive in questa Città. Siano capaci di entrare in autentico dialogo, orientato efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro territorio! Siano capaci di scelte coraggiose e lungimiranti, perché la nostra Città possa proiettarsi verso il futuro salvaguardando la dignità delle famiglie, dei giovani, degli anziani e dei poveri.  Che la politica, comunemente tanto denigrata, sia considerata non una occasione per “fare carriera”, ma una vocazione altissima, una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune (cfr EG 205).

Dio benedica la nostra Città e tutti i suoi abitanti.

+ Oscar Cantoni, vescovo

30/08/2017
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